Nonostante qualche progresso, i progetti per mappare la mente sono ancora alle fasi embrionali. E lo scetticismo dei neuroscienziati continua ad aumentare
L’avvento di un’intelligenza artificiale generale, in grado di fare concorrenza al cervello umano, non è solamente ancora molto lontano, ma potrebbe anche non verificarsi mai. Per dirla con Luciano Floridi, che la combinazione di big data sempre più imponenti e crescente potere di calcolo dei computer possa un giorno far sorgere una vera intelligenza “è logicamente possibile, ma assolutamente improbabile”.
Se le cose stanno così, perché non seguire la strada contraria? Perché, invece di provare a creare un’intelligenza di tipo umano partendo dai transistor, non riprodurre integralmente il cervello in un sistema digitale in cui sono ricreati nel minimo dettaglio tutti i neuroni e le loro connessioni? Perché, in poche parole, non dare vita a una simulazione digitale del cervello umano?
Per riuscire in quest’impresa, non si può che iniziare dalla mappatura del cervello umano, qualcosa a cui stanno lavorando – con alcune differenze – progetti scientifici come lo Human Brain Project (Hbp) finanziato dall’Unione Europea o la Brain Initiative statunitense. Ma come si possono mappare 85 miliardi di neuroni e 100mila miliardi di sinapsi in continuo mutamento? “Il processo di mappatura dovrebbe (almeno) acquisire la posizione e le caratteristiche di ogni neurone e di ogni sinapsi, insieme a un connettoma di livello neurale, cioè una registrazione di ogni connessione fra ogni assone e ogni dendrite”, scrive Murray Shanahan nel saggio La Rivolta delle Macchine. “Il risultato sarà un modello enormemente dettagliato di un certo cervello in un dato momento nel tempo”.
Questa mappatura dettagliata, però, non è solo estremamente difficile da ottenere, ma è anche ampiamente insufficiente. Non basta avere un’immagine statica del cervello per conoscere il suo funzionamento: è necessario anche analizzare e riprodurre tutte le dinamiche interne. Per una vera e propria emulazione cerebrale sono quindi necessari altri due passaggi: “La seconda fase del processo consiste nell’utilizzo del modello per costruire una simulazione in tempo reale dell’attività elettrochimica di tutti quei neuroni e delle connessioni tra essi. (…) Inutile dire che ci vorrebbero delle risorse informatiche notevoli per simulare in questo modo anche un cervello di piccole dimensioni”, scrive ancora Shanahan.
“La terza fase del processo consiste nell’interfacciare la simulazione con un ambiente esterno. Fin qui ciò che si ha è solo un dispositivo di calcolo incorporeo, molto complesso. Per passare da una simulazione impotente che funziona all’interno di una scatola a una emulazione potente che funzioni in maniera causale e che mostri un comportamento verso l’esterno, ci vuole la costruzione di un corpo”, prosegue l’autore de La Rivolta delle Macchine. “Poiché la simulazione prevede segnali in ingresso proprio come quelli presenti nel suo precursore biologico, e come quello dovrebbe generare segnali in uscita, l’obiettivo di interfacciare il cervello simulato al suo corpo (sintetico) è reso più semplice nel caso in cui sia morfologicamente e meccanicamente simile al corpo dell’animale originale”.
Il punto di partenza, in ogni caso, non può che essere uno: mappare il cervello umano, creare una tassonomia di tutti i diversi tipi di neuroni che si trovano al suo interno e ricostruire dettagliatamente il connettoma del cervello umano (ovvero l’intera rete delle connessioni tra le aree cerebrali). Solo così potremo fare luce sui misteri che ancora circondano il funzionamento del cervello e cominciare quell’operazione di ingegneria inversa che potrebbe spalancare le porte a una diversa forma di intelligenza artificiale forte.
È davvero possibile? “Partendo da quello che sappiamo del cervello e se la domanda che ci poniamo è se saremo un giorno in grado di uploadare la nostra mente in un computer, a mio parere la risposta è sì, ci riusciremo senz’altro”, scrive su Aeon il professore di Neuroscienze all’università di Princeton Michael Graziano. I limiti da superare, come già accennato, sono però enormi: “Anche solo simulare il comportamento di un singolo neurone è un compito estremamente difficile, per quanto sia già stato approssimativamente fatto. Simulare un intero network di cento miliardi di neuroni interconnessi in complicatissimi pattern va molto oltre le tecnologie a disposizione oggi”.
Ciononostante, non è il caso di disperare: “Non ci sono dubbi sul fatto che saremo in grado di scannerizzare, mappare e immagazzinare i dati di ogni singola connessione neuronale della testa di una persona”, prosegue Michael Graziano. “Potrebbero volerci 50 o forse 100 anni, ma è solo una questione di tempo”.
Le tempistiche immaginate da altri neuroscienziati sono però molto più ottimistiche. “Possiamo farlo nel giro di dieci anni. E se avremo successo, in futuro manderemo un ologramma a parlare con voi”, disse durante un Ted Talk Henry Markram, il neuroscienziato che ha dato vita allo Human Brain Project. Ma c’è un problema: le sue parole furono pronunciate nel 2009, i dieci anni sono passati e della simulazione del cervello non c’è ancora nemmeno l’ombra. Non dovrebbe essere una sorpresa: le previsioni temporali di questi grandiosi progetti scientifici sono sempre eccessivamente ottimiste (in questo settore, il campione indiscusso è Elon Musk).
A suscitare lo scetticismo, e spesso anche lo sdegno, di buona parte della comunità dei neuroscienziati sono però due altri aspetti. Prima di tutto, la Commissione Europea ha finanziato lo Human Brain Project nel 2013 con un miliardo di euro (erogato nel corso di dieci anni): una montagna di denaro che – sostengono i critici – sarebbe stato speso meglio per sostenere un numero più ampio di differenti studi del cervello umano che hanno obiettivi più pratici e raggiungibili. In secondo luogo, non è affatto detto che tutti questi sforzi abbiano davvero una loro ragion d’essere.
“La complessità del cervello – come i neuroni si connettono e cooperano, come le memorie si formano, come le decisioni vengono prese – ci è più ignota di quanto ci sia nota, e non è pensabile che la sua dettagliata decifrazione possa essere completata nel giro di un decennio”, ha scritto Ed Yong sull’Atlantic. “È già abbastanza difficile mappare e creare un modello dei 302 neuroni del verme C. Elegans, lasciamo perdere quanto sia complesso farlo con gli 86 miliardi di neuroni che si trovano nel nostro cranio”.
Che la strada da percorrere sia ancora molto lunga lo dimostra un’altra iniziativa sostenuta da Makram, il Blue Brain Project, grazie al quale nel 2015 si è riusciti a simulare digitalmente 30mila neuroni di un ratto: vale a dire lo 0,15% del suo cervello. Nonostante i passi avanti siano molto più lenti del previsto, queste prime conquiste potrebbero comunque segnalare come si sia sulla giusta strada per arrivare a una riproduzione della mente e, successivamente, scoprire i segreti della mente. Oppure no? In verità, lo scetticismo degli scienziati non riguarda soltanto la fattibilità di questo progetto, ma anche la sua utilità.
“Avresti un cervello in un computer, come prima avevi un cervello in un cranio. E questo che cosa ci dice in più?”, ha riassunto la neuroscienziata Grace Lindsay. Obiezioni a cui replica direttamente uno degli ultimi paper prodotti dallo Human Brain Project, in cui si sostiene che queste simulazioni saranno probabilmente indispensabili per colmare i nostri attuali vuoti nella conoscenza del cervello. Gli scienziati oggi possono osservare il comportamento dei neuroni e studiare il comportamento di un intero organismo, spiegano gli autori, ma hanno bisogno delle simulazioni se vogliono comprendere a fondo come il primo influenza il secondo.
La replica però non ha convinto la comunità di esperti, per le ragioni spiegate sempre all’Atlantic da Adrienne Fairhall, neuroscienziata dell’Università di Washington che ha indirettamente confermato la necessità dei tre passaggi descritti da Murray Shanahan: “Cosa potremmo imparare da un cervello privo di corpo messo in un vaso virtuale, disconnesso dagli occhi, le orecchie e gli arti? Potresti prendere un pezzo di tessuto e fare tutti gli studi fisici che vuoi, ma non ti aiuterebbe a capire a cosa serve davvero. Simulare un tessuto è fattibile, ma è insignificante”.
Tutte queste critiche sono state raccolte in una lettera aperta inviata alla Commissione Europea già nel 2014 da oltre 800 neuroscienziati, lamentando come lo Human Brain Project non fosse un progetto “ben concepito” e come “non dovrebbe essere al centro delle neuroscienze europee”. Critiche che non sono cadute nel vuoto, visto che un comitato della Commissione Europea ha in seguito chiesto a HBP di ripensare il proprio lavoro e di suddividerlo “in un certo numero di attività a cui vengano date le giuste priorità”.
Il cambio di direzione non sarà sicuramente piaciuto ai transumanisti, che confidano proprio nella mappatura integrale e dettagliata del cervello umano per raggiungere il loro fantascientifico sogno: la conquista dell’immortalità. Da un punto di vista puramente logico, che la mappatura del cervello potrebbe permetterci di vivere per sempre ha qualche senso: nel momento in cui saremo davvero in grado di caricare il cervello umano su un computer, si può immaginare di riprodurre in maniera digitale tutte le caratteristiche – intelligenza, ricordi, emozioni e quant’altro – che contraddistinguono la mente di una specifica persone. Se e quando questo fantascientifico progetto dovesse andare in porto, diventerebbe quindi possibile vivere per sempre. Sempre che si possa chiamare davvero vita un’esistenza sotto forma di software.
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