Negli ultimi giorni si è parlato ampliamente tra alcuni Esploratori Erranti di una silenziosa e potente rivoluzione culturale in atto: il progressivo affermarsi dei giochi da tavolo e dei videogiochi “collaborativi” sul mercato storicamente formato da giochi “competitivi”. Il discorso si può poi ampliare al mondo sportivo e a quello lavorativo. Ho iniziato a raccogliere qualche articolo mentre elaboro un mio testo sull’argomento…

 


COMPETITIVI O COLLABORATIVI?

La società performativa

Il 22 aprile è  stata la giornata mondiale della Terra, un bene di tutti, la cui salvaguardia interessa però a pochi. Ma la speranza che i 175 stati intervenuti abbiano a cuore il futuro del pianeta è il primo passo; ogni paese dovrà intervenire al suo interno, tenendo conto  soprattutto dei paesi più poveri. Per questo ci vuole cooperazione… “In quasi tutto il mondo la diseguaglianza sta aumentando e ciò significa che i ricchi e soprattutto i molto ricchi, diventano più ricchi, mentre i poveri e soprattutto i molto poveri diventano più poveri. Questa è la conseguenza ultima di aver sostituito la competizione e la rivalità alla cooperazione amichevole, alla condivisione, alla fiducia e al rispetto” (Z.Bauman)

Oggi viviamo in una società altamente performativa, cioè con un modo di vivere prettamente orientato all’efficienza. Siamo spinti verso l’efficienza da ogni direzione e non c’è nemmeno da chiedersi cosa scegliere, è inevitabile. Per stare sul mercato un prodotto deve essere più performativo di un altro, così anche le persone si assoggettano a questa filosofia e in un attimo accettano la sfida cercando di avere tutto al massimo. E lo spirito cooperativo dove è andato a finire?

Competizione o collaborazione?

Competizione e collaborazione: le due componenti possono apparire diametralmente opposte, ma sono in realtà due aspetti che hanno contribuito allo sviluppo dell’essere umano e alla sua evoluzione. Non potrebbe esserci difatti una società priva dell’una o dell’altra, perchè sono due lati che stimolano aree fondamentali della crescita. Insieme contribuiscono a creare l’Identità sociale. Molto spesso sono però due valori che si oppongono. Sicuramente nelle generazioni precedenti, probabilmente perchè reduci più freschi dalla tragedia delle guerre, la collaborazione era un valore predominante. Le persone si erano unite nella Resistenza o avevano combattuto nell’esercito, ma erano più abituate a fare gruppo. Chiaramente quel senso di appartenenza ha continuato a pervadere anche le culture successive, pensiamo alla cultura hippy che nella sua semplicità mostrava un mondo dove non solo c’era la parità e l’uguaglianza, ma dove lo spirito comunitario era dominante. La stessa Chiesa accomunava i suoi proseliti nei suoi dogmi attraverso un senso di fratellanza, persino la cultura di sinistra lo promuoveva. “La collaborazione, afferma il sociologo Sennett, può essere definita come uno scambio in cui i partecipanti traggono vantaggio dall’essere insieme”. La collaborazione è una forza capace di ridurre il narcisismo e il bisogno di autocompiacimento, in quanto ci pone  forzatamente difronte ai bisogni dell’altro.

Poi c’è stato il boom economico e la marcia verso un crescente individualismo dove gli altri non solo non sono contemplati, ma sono spesso presenti solo come mezzo di confronto o come un trampolino da cui salire e fare meglio. Questo ha sviluppato dapprima in ambito economico, poi in quello sociale e individuale il passaggio da uno spirito collaborativo ad un competitivo altissimo, basta pensare che nelle aziende oggi si fanno comunemente giochi di squadra per unire le persone e migliorare il lavoro in team. Purtroppo il concetto che si nasconde dietro l’individualismo è quello  di eccellere su tutti, per non sentirsi inadeguati. La competizione quindi viene già stimolata più della collaborazione sin dal periodo scolastico. Molto spesso i voti favoriscono questo genere di spinta individuale, fare meglio dell’altro può anche essere un principio motivazionale ed una scelta educativa, se non fosse che tutto il mondo intorno rafforza quest’aspetto a sfavore della cooperazione. Sfidarsi e sfidare gli altri è importante, tira fuori il carattere ma ha dei rischi: in primis quello di favorire la rivalità e un senso di far meglio dell’altro non per se stessi, quanto per dimostrare il proprio potere. Persino nello sport i bambini vengono spinti a battersi, più che a competere quando non sono addirittura i genitori a porsi in prima linea per contendere con i genitori “avversari”. I bambini vedono questo modo di relazionarsi lo apprendono, lo imitano, si modellano a seconda dei genitori e di quello che gli arriva. Quindi sviluppano a loro volta quest’ attitudine esasperando quest’aspetto. In fondo la competizione rafforza  l’autostima, ma  può far soccombere chi ne ha poca o  far cedere coloro che non si sentono all’altezza ( o che non hanno un atteggiamento performativo dominante). Il senso di inferiorità può così mischiarsi ad uno di grandiosità ed intrappolare chi si trova al suo interno in dinamiche di potere malsane.

Tra gli amici si protrae questo atteggiamento, nel mondo del lavoro e se  l’ odierna educazione dei figli è molto direzionata al loro eccellere nella società, il danno di un abnorme bisogno di competizione può accrescersi creando disturbi di personalità. La famiglia ha perso il suo senso di unità e la competizione  che un tempo creava conflitti soprattutto tra fratelli, oggi è una dinamica in cui entrano tutti. Persino genitori e figli entrano in competizione. Nella coppia così molte delle conflittualità dipendono da un gioco di potere. Ci si confronta dietro ad un senso di gelosia o di invidia rimarcando continuamente quello che l’altro ha in più di noi, sottolineando spesso con acredine quello che noi abbiamo più dell’altro. La competizione riguarda lo status, l’aspetto fisico, il grado di cultura, di intelligenza, le azioni che compiamo rispetto all’altro. Nelle separazioni poi la competizione trova la sua massima espressione, spesso la richiesta di un risarcimento economico nasce da un bisogno di risarcimento emotivo e a ritrovare quel potere che si è perso. L’importante è non mostrare mai di essere deboli, meno degli altri. Ovviamente se la smania del controllo cresce e la necessità di uscirne vincenti diventa monopolizzante, la fiducia verrà a cadere.

Basta vedere le persone fare sport, dove origina il concetto di competizione, per capire come  si orientano. Lo sport è intanto una sfida verso se stessi e poi verso gli altri, la modalità con cui ci alleniamo è un esempio di come elaboriamo o prescindiamo a livello comportamentale rispetto alla competizione. Nei giochi in generale si può evincere quale tra competizione e collaborazione predomina di più, come negli scacchi esistono persone che giocano sulla difensiva, altre che devono attaccare, giocare per vincere. Mentre la collaborazione rafforza non solo il concetto di gruppo, la competitività spesso provoca ansia, perchè non c’è altro modo per divertirsi o per comportarsi che non abbia il fine di vincere. Di eccellere e di raggiungere il risultato. Nel lavoro i rapporti tra colleghi sono pessimi, perchè spesso sono in guerra gli uni contro gli altri: si guardano con sospetto, in attesa di chi sarà la prossima vittima sacrificale ad essere mandata via. Come può crearsi gruppo in tali condizioni?L’attuale filosofia manageriale si attua creando un’obbedienza cieca generata dalla precarietà e dalla paura dei lavoratori, ma questa a sua volta non può che aumentare il senso di rivalità tra le persone.

Sempre Bauman afferma :”Il nostro mondo è costruito in modo da rendere la cooperazione e la solidarietà una scelta non solo impopolare,ma anche difficile e onerosa.. La grande maggioranza delle persone, per quanto animata da credenze e intenzioni nobili e elevate, si scontra con realtà ostili e vendicative e soprattutto indomabili: realtà di onnipresente cupidigia e corruzione, rivalità ed egoismo da ogni parte, che suggeriscono ed esaltano sospetto reciproco e vigilanza continua. Almeno il singolo può poco, o  peggio gli viene fatto creder alla fine che non può nulla. Veniamo così portati a dedurre che la diseguaglianza umana è inevitabile.” Purtroppo anche i social network che darebbero l’impressione di una piattaforma comunitaria risentono e forse aumentano il senso di competizione: per il numero di amici e per i link ricevuti. Per quanto fallace rispetto al valore della persona in sè ,denotano il bisogno di essere o avere sempre più di tutti. Ancora Sennett spiega che i social network anzichè includere, possono infatti escludere;  il fatto di avere centinaia di amici privilegia l’esibizione, specie quella competitiva.

Sta nascendo una competizione anche sulle cose negative, dove ad un problema dell’altro, il nostro deve essere sempre più grande ed importante. Mi sono sconvolta di recente quando ho sentito chiedere con tristezza  se l’Isis non veniva in Italia a compiere gli attentati. Dopo aver spiegato che non è esattamente un tour di un gruppo musicale e quindi non “si perde” a non trovarsi coinvolti in drammi come è accaduto in Belgio e in Francia, ho riflettuto che per quanto fosse una cosa terribile, era comunque un atto conseguente all’importanza di alcuni paesi europei su altri. Come se l’Italia fosse davvero poco rilevante a livello politico internazionale senza il pericolo di un attentato!

Un tempo a scuola facevamo le ricerche, si andava a casa dell’uno o dell’altro, era un modo per divertirsi è chiaro, ma era anche un modo per imparare a gestire il lavoro di gruppo e i ruoli che ognuno aveva all’interno a seconda delle sua abilità. Si giocava di più ai giochi di società dove si stava in squadra con persone più o meno brave, ma che in quel momento avevano tutte lo stesso valore. Era generare implicitamente il senso del rispetto per l’altro, annullare le diversità, imparare a dare ed ottenere la libertà dell’essere. Una cultura competitiva tende a lasciare indietro chi è meno fortunato, non so se però questo è sempre un bene. Molto spesso chi resta indietro è solo meno avvantaggiato e non è detto che da solo abbia le forze per garantirsi una rivincita.

Ritorno alla cooperazione

-Una delle conseguenze del capitalismo è quella di aver rafforzato il valore dei luoghi, di aver creato un desiderio di comunità. E’ un desiderio animato dalle incertezze create dalla flessibilità, l’assenza di fiducia e la superficialità ne lavoro di gruppo, lo spettro di non riuscire a diventare qualcuno nel mondo, di non “costruirsi” attraverso il proprio lavoro. Tutte queste condizioni spingono la gente a cercare attaccamento e profondità da qualche altra parte-, asserisce Sennett. Qualcosa sta però cambiando e l’economia solidale, le piattaforme dove si condivide un pasto, una stanza, un viaggio in macchina riflettono un bisogno molto umano di contatto vero. Sicuramente i fatti recenti in Europa sull’ondata intensissima di immigrazione, ci hanno fatto riflettere non tanto sulle possibili soluzioni, ma sulla paura che abbiamo dell’invasione del diverso. Per quanto oggi sono molti di più i liberi professionisti che lavorano soli o coloro che vivono soli, la paura dell’altro e la non fiducia aleggia fortissima. C’è da un lato un bisogno che cresce sempre di più  per la creazione di modi di vivere comunitari, forse perchè –l’attuale clima sociale favorisce l’individualismo, la competizione e la diffidenza quando le risposte migliori davanti ad una crisi dovrebbero essere opposte: solidarietà e senso di responsabilità nei confronti dell’altro. Infatti la sicurezza è un sentimento che si crea e si rinforza nell’idea di vivere dentro un orizzonte comune-  Ecco forse quello che dovrebbe essere il fine ultimo, ma il primo messaggio della Giornata Mondiale della Terra.

Dott.ssa Rebecca Montagnino

BIBLIOGRAFIA

  • INSIEME, R.SENNETT
  • L’UOMO FLESSIBILE, R,SENNETT
  • INDIVIDUALMENTE INSIEME, Z.BAUMAN

FONTE

 


COMPETERE O COLLABORARE?

di Michele Loporcaro

Dinamica dei Gruppi e Sport,
Tesi discussa all’ISEF di L’Aquila – sede di Foggia -, a. a. 1996-97.

Quando si parla di prestazione spesso si deve “fare i conti” con termini quali competizione, collaborazione, agonismo, cooperazione, rivalità.
Sono parecchi gli studi con i quali si è cercato di dare delle indicazioni riguardo la prestazione, i diversi tipi di prestazione, i fattori che la influenzano.
Un’opinione molto diffusa è quella secondo cui la competizione è l’essenza della produttività (o prestazione). Inoltre, sembra ormai ovvio, soprattutto nel mondo occidentale contemporaneo, che per fare bene sia indispensabile fare meglio degli altri.
A dire il vero, in un passato molto remoto, c’è già stato qualcuno che ha sostenuto caparbiamente il principio secondo il quale non c’è vita secondo competizione, che la rivalità, la competizione e la guerra, sono presenti in ogni particella dell’intero universo… Si tratta di Eraclito di Efeso, un astruso quanto anormale filosofo presocratico. Per Eraclito “tutto accade secondo contesa” ed ancora “la guerra è la madre di tutte le cose”.
Ma alcuni autori, tra i quali Alfie Kohn, invitano quantomeno alla riflessione: siamo sicuri che le nostre prestazioni aumentano quando cerchiamo di superare qualcuno o, nel caso di un gruppo, quando questo cerca di superare l’altro? Questi psicologi hanno voluto vedere da vicino i vantaggi presunti dello stile competitivo e, con incredibile regolarità, hanno scoperto che far dipendere il proprio successo dal fallimento altrui (infondo è questo che comporta la competitività), comporta un’impostazione che non regge. In pratica, sembra che una buona prestazione non richieda affatto un approccio di tipo competitivo, anzi spesso succede proprio il contrario. Sebbene questa asserzione metta in discussione alcune convinzione largamente diffuse, essa ha dalla propria parte decine di studi anche non recentissimi.

In un articolo apparso su “Psicologia contemporanea” del 1988, Alfie Kohn riporta i risultati di alcuni studi, a sostegno della sua tesi: meglio collaborare che competere. Negli anni ’70, lo psicologo Robert Helmreich, dell’Università del Texas, ha studiato la relazione tra il successo ed alcuni tratti della personalità (atteggiamento verso il lavoro, competenza…) e la competitività. I tratti della personalità sono stati misurati mediante questionario, su un campione di 103 uomini di scienza. Il loro successo professionale, invece, era indicato dal numero di citazioni totalizzate da ciascuno negli articoli dei colleghi. Da questa indagine emerse che i più brillanti ottenevano punteggi alti nelle scale di dedizione al lavoro e di impegno intellettuale; ma i loro punteggi erano bassi per quanto riguardava la competitività.
Tutto ciò meravigliò molto Helmreich, il quale non immaginava che competizione e successo fossero in antitesi tra loro, tanto da fargli credere di aver commesso degli errori. A scanso di equivoci, egli ripeté la stessa ricerca su un campione di docenti universitari di psicologia: i risultati furono identici. In altri due lavori, uno con un gruppo di dirigenti di azienda (misurando il successo con lo stipendio annuo percepito), l’altro con un campione di oltre 1300 studenti (usando la media dei voti come indice di successo), emerse nuovamente una correlazione tra competitività e prestazione.
Come si può facilmente osservare, le conclusioni a cui giunge Helmreich, finiscono per mettere in dubbio l’idea (tanto in voga oggi) che per avere successo negli affari sia necessario un atteggiamento competitivo.
Ma Helmreich non si è fermato, e nel 1985 ha condotto altri tre studi che prendevano in esame un campione di alunni ed uno di piloti, ottenendo ulteriori risultati nella stessa direzione. Kohn fa notare che gli studi compiuti da Helmreich hanno un’importanza particolare, in quanto non si basano su un tratto della personalità spurio come la “motivazione al successo”, ma isola la competitività dalle altre componenti di questa dimensione composta.
“Prima di questo” dice Kohn “i ricercatori presumevano semplicemente che tutte le componenti della motivazione al successo fossero associate ad un miglior rendimento: ora sappiamo che la competitività, in particolare non lo è”. Inoltre, non è solo a livello individuale che la competizione “mina” il successo (come si potrebbe dedurre dalla considerazione degli studi fin qui esposti); sembra che anche una situazione di gruppo strutturata in modo da esigere la competizione tra i membri tenda a produrre gli stessi effetti, e questo, per qualsiasi tipo di attività
Già dal 1949, Morton Deutsch aveva creato durante un esperimento delle atmosfere di classe collaborative o competitive tramite variazioni molto sottili negli orientamenti che egli aveva dato a classi diverse.
Deutsch disse ad alcuni studenti di un college che, invece di seguire il normale corso di psicologia essi avrebbero preso parte a dei seminari per la discussione e l’analisi di casi individuali. Egli informò il gruppo “competitivo” che gli studenti sarebbero stati classificati in base alla loro analisi e discussione dei vari casi, e che il voto finale di ogni persona sarebbe stato ricavato dalla media dei suoi voti giornalieri. Ai membri dei gruppi collaborativi si disse, invece, che una buona parte dei loro voti del corso sarebbero dipesi dalla qualità della discussione mostrata dall’intero gruppo. Deutsch volle osservare le conseguenze di queste due impostazioni. Nella situazione di collaborazione, scopi individuali e obiettivi di gruppo si identificano, l’attenzione dei membri era rivolta non più a se stessi ma all’interazione con gli altri. La consapevolezza che ognuno poteva contribuire al risultato finale faceva progredire l’intero sistema in maniera compatta. Nel gruppo “competitivo” i membri erano portati a concentrare l’attenzione sulla propria prestazione visto che i loro voti erano funzione delle loro capacità individuali. Deutsch osservò come queste diverse impostazioni producevano rendimenti differenti. I gruppi “collaborativi” divennero dei veri gruppi; le loro discussioni produssero molte più idee, non solo, ma la loro qualità fu superiore. Al contrario nei gruppi “competitivi” non ci fu integrazione tra i membri e i risultati furono nettamente inferiori a causa del palese individualismo.
Quest’esperimento dimostra che gli individui sono in grado di cambiare il proprio comportamento e di passare da un interesse prevalente per l'”Io” ad un interesse prevalente per il “Noi”, quando la loro ricompensa dipende da tale cambiamento; e che il rendimento del gruppo viene notevolmente modificato.
Kohn, nell’articolo di cui sopra, riferisce di un altro esperimento condotto dalla psicologa Teresa Amabile (Brandeis University) nel quale si chiedeva a bambine da 7 a 11 anni di comporre dei collages “buffi”. Alcune di queste lavoravano in competizione, in vista di un premio per il collage più bello, altre no. I collages delle bambine che avevano lavorato in vista del premio, sottoposti al giudizio di 7 artisti, furono giudicati significativamente meno creativi di quelli prodotti dalle bambine che non erano in competizione. Il non-sense della competizione ed il grido d’accusa contro di essa, si rafforzano quando si prende in esame il campo dell’istruzione. Un immenso numero di ricerche -sostiene Kohn- dimostrano regolarmente che la competizione nella scuola produce effetti negativi sul rendimento. Questo avviene sia se si prendono in esame i profitti di compiti massimizzanti (che hanno di per sé una impostazione competitiva), sia, ovviamente, se si passa a considerare il profitto come risultato. In quest’ultimo caso i metodi competitivi fanno una figura ancora peggiore. I ragazzi, in pratica, non imparano meglio quando l’apprendimento viene trasformato in una gara. Kohn aggiunge: “Può ben darsi che l’insegnante preferisca fare della lezione un gioco a premi per tenere avvinta l’attenzione degli alunni, ma il vantaggio reale di questa strategia è di rendere l’insegnamento più facile, non più efficace: è un modo per aggirare i problemi pedagogici, piuttosto che risolverli”. A tal proposito lo stesso Kohn riporta le parole di John Holt (filosofo dell’educazione) che, a nostro parere chiariscono molto bene “il prezzo che paghiamo per la competizione nella scuola”: Noi distruggiamo… l’amore dell’apprendimento dei bambini, che è tanto forte quando sono piccoli, incoraggiandoli a lavorare in vista di ricompense meschine e disprezzabili -attestati, esposizioni di termini e disegni sulle pareti, dei voti in pagella, riconoscimenti e privilegi- in breve, per l’ignobile soddisfazione di sentirsi migliori di qualcun altro. Secondo Kohn, la gente preferisce la cooperazione alla competizione, quando le ha provate entrambe.
Nel 1984, David e Roger Johnson, professori di pedagogia all’Università del Minnesota, hanno dimostrato con sette ricerche sperimentali, che le esperienze di apprendimento di tipo cooperativo erano più gradite di quelle competitive (o individualistiche). Terry Olrick psicologo dello sport all’Università Ottawa, ha scoperto che la stessa cosa vale al di fuori dell’ambito scolastico. Dopo aver insegnato a dei bambini dei giochi non competitivi, ha potuto constatare che la totalità delle bambine ed i due terzi dei bambini preferivano questo tipo di ricreazione ai soliti giochi che esaltavano la competizione. Kohn sostiene che la competizione è spesso causa di ansia. Anche se “… in fondo è un gioco”, la posta psicologica è molto alta; e la possibilità di uscire perdenti provoca uno stato emotivo che interferisce sul rendimento.
Insomma, sembra che proprio la competizione non promuova l’eccellenza; e questo per un motivo semplicissimo: cercare di far bene e cercare di battere gli altri, sono semplicemente due cose diverse. Questa diversità deriva dalla diversa motivazione che ognuno di questi due scopi ha alla base. Ciò spiega perché la competizione può ostacolare il successo. La teoria motivazionale, dunque, offre degli ottimi spunti per capire meglio il problema. Gli individui rendono al massimo nelle attività a loro particolarmente piacevoli, quelle attività per le quali hanno una motivazione intrinseca. Molti studi hanno dimostrato (afferma Kohn) che un fattore motivante esterno (motivazione estrinseca) come il denaro, i bei voti scolastici o le lusinghe della competizione, semplicemente non bastano a farci ottenere risultati altrettanto buoni, come quando siamo impegnati in un’attività che è di per sé gratificante. Come dire che un qualsiasi professionista è tale perché crede in ciò che fa’, a prescindere da quello che guadagna. Da questi studi sulla motivazione intrinseca ed estrinseca, si evince che la voglia di fare meglio degli altri (la competizione, dunque) agisce esattamente come un qualunque altro fattore motivante estrinseco. In una situazione di competitività non è l’attività in sé ad essere gratificante, ma le sue conseguenza, la “…soddisfazione di sentirsi migliori di qualcun altro”.
Ma allora, davvero è meglio collaborare? Davvero, la competizione è soltanto negativa? Da quanto detto, si direbbe che uno stile collaborativo è senz’altro da preferire, all’interno di un gruppo, rispetto ad uno stile competitivo. A noi, sostenitori di Eraclito, però, piace individuare la positività della competizione, ad un livello superiore: “una competizione al fine di collaborare”. Nel fare questo, non facciamo altro che pensare che il progresso dell’umanità, sotto ogni aspetto, sia stato quasi sempre il frutto dello “scontro” (competizione) tra diverse ideologie, diversi approcci alle problematiche filosofiche, politiche, letterarie, psicologiche, giuridiche, scientifiche, sociali, diversi interessi, ecc. che via via si sono presentate all’uomo: individualità e conformismo, filosofia aristotelica e filosofia platonica, Eraclito e Parmenide, Romani e Greci, Orazi e Curazi, potere spirituale e potere temporale, cultura libresca e metodo sperimentale, Illuminismo e Romanticismo, Comunismo e Fascismo… La storia è fatta di contrasti, di competizioni, ed è in questi che noi individuiamo la fonte dei cambiamenti e del progresso.
Un altro esempio è dato dal titolo di questo capitolo (“Competere o collaborare?”): non è forse, questo titolo la sintesi di una competizione, sia pure teorica, tra la stessa competizione e la collaborazione? E non è questo stesso capitolo il risultato (positivo, a nostro avviso) di questo conflitto? Noi proporremmo una “competizione collaborativa”, un continuo confronto che abbia come obiettivo il progredire insieme; un tipo di impostazione che tenga conto della possibilità reale di collaborare mediante competizione. Questa formula, che può sembrare paradossale, permette comunque una certa tensione emotiva (frutto dell’ansia della competizione) che se non è eccessiva risulta producente; in più consente di “sfruttare” i vantaggi della collaborazione, sia pure per mezzo della competizione.

FONTE


Competizione e Collaborazione, un rapporto possibile

Una questione organizzativa importante, spesso sottovalutata, è il confronto / scontro tra Collaborazione e Competizione.

Entrambi gli aspetti sono di certo conosciuti ed applicati nei contesti lavorativi ma vissuti quasi in modo contrapposto, al punto che se sussiste l’una, l’altra sembrerebbe pregiudicata e viceversa.

Eppure una sana gestione delle risorse umane ed una corretta comprensione delle dinamiche lavorative dovrebbero farsi carico di questa dicotomia, che dicotomia non è: provo a spiegarla.

La Collaborazione è certamente un principio di sana gestione interna di un gruppo, il principio di solidarietà tra colleghi che aiuta le prestazioni dei lavoratori nella massimizzazione di obiettivi comuni; un approccio di reciprocità e di empatia utile alla finalizzazione di un obiettivo complesso che richiede ruoli, capacità e competenze differenti e tutte necessarie.

La Competizione è altrettanto importante perché esalta il concetto della meritocrazia, un principio sempre più descritto ed analizzato perché esalta il concetto del miglioramento individuale, esplicita la spinta verso la propria crescita professionale, evidenzia gli aspetti relativi alla desiderata crescita retributiva o di mansioni all’interno di una struttura aziendale o organizzativa.

Ed ora il quesito è come far conciliare queste due componenti: in massima sintesi, potremmo dire che la Collaborazione costituisce l’humus necessario, la Competizione la spinta verso il miglioramento, ma analizziamo meglio.

Affermare e mettere in pratica la Collaborazione significa consentire l’applicazione di condizioni di trasparenza, di pari accesso alle informazioni, di pari possibilità per tutti, di crescita e di confronto.

La Competizione invece diventa il meccanismo più individuale per esaltare la propria eccellenza ed il contesto organizzativo deve spingere verso una maggiore e migliore prestazione da parte del collaboratore; ma si può parlare anche di Competizione di gruppo nella situazione in cui ciascuno, sviluppando un proprio percorso, contribuisce all’aumento delle conoscenze e delle prestazioni dell’intero gruppo.

In questo confronto tra collaborazione e competizione devono scattare meccanismi di gestione, da parte di un leader o responsabile che dovrebbe esaltare entrambe le qualità, miscelando il clima di collaborazione ad un sistema premiante che motivi la competizione.

Una sorta di equidistanza rispetto alle due componenti: creare un clima di apertura, di facile accesso al contributo, unito al messaggio di stimolo a “Dare di più”; ne consegue che il leader dovrebbe allo stesso tempo dare merito alle performance individuali e gratificare le prestazioni che esaltano lo spirito di collaborazione e siano di reale aiuto per tutti.

Importante strumento a disposizione del coordinatore, rimane sempre quello di confrontarsi con ciascun componente del gruppo, in modo diretto, individuale, direi personalizzato; questo al fine di raccogliere i suggerimenti e le perplessità in modo “protetto” e cogliere gli spazi non esplorati, i molteplici “non detti” che costituiscono mine pericolose per la realizzazione di qualsiasi obiettivo, individuale o collettivo che sia.

Affrontare individualmente ciascun collaboratore significa motivarlo con parole e comportamenti adattati al caso, esulando dalla dinamica complessiva aziendale.

Si pone qui fortemente l’antico conflitto tra la Prestazione e la Partecipazione, ossia tra la necessità di ottenere prestazioni di alto livello e sempre più efficienti e dall’altro l’esigenza di mantenere un sano benessere organizzativo, un’atmosfera di aperta inclusione alle differenti sensibilità di chi lavora.

Un conflitto, anch’esso vero fino ad un certo punto; basterebbe comprendere che la prestazione è spesso il frutto di una Buona partecipazione, ossia il lavoratore dà il meglio di sé grazie ad un clima aperto ai contributi nuovi ed innovativi.

Così come una Buona Partecipazione è resa tale proprio da prestazioni performanti, ossia dagli sforzi individuali che oltre alla esaltazione della eccellenza di una prestazione, apporta “empowerment” per tutto il gruppo che ne beneficia in termini di autogratificazione e senso di evoluzione aziendale ed organizzativo.

Ed allora, Buona Competizione collaborativa o se volete, Buona Collaborazione competitiva!

FONTE