Il fenomeno delle newsletter indipendenti cresce e muove anche fatturati e startup. Ecco come farne un hobby vero e crearne una che generi anche qualche ricavo

C’è una frase giapponese, O-makase, che si usa nei ristoranti del Sol Levante. Vuol dire “mi fido del cuoco, voglio che scelga lui per me e che mi stupisca” (in realtà vuol dire più semplicemente “lascio scegliere a te”, ma diciamo che il senso è quello). L’O-makase è una prova d’autore per lo chef, rischiosa (possono arrivare piatti che non piacciono) ma ha il vantaggio di far pagare relativamente poco per il pesce più fresco e i contorni migliori.
A pensarci bene, le newsletter di informazione indipendente che stanno crescendo da tre o quattro anni a questa parte in doppia cifra, realizzate da giornalisti e blogger indipendenti ma anche da aziende e addirittura startup del settore sono degli O-makase: indecisi su cosa leggere forniscono ai lettori contenuti a tema che li stupiscano.

Il boom degli affari

Se ne è accorto anche il venture capitalist americano Andreessen Horowitz, che ha investito 15,3 milioni di dollari in Substack, startup che in due anni ha trasformato le newsletter in una sorta di Medium via mail che arriva direttamente nell’inbox (e che ha recentemente aggiunto anche podcast e forum con discussioni). L’amministratore delegato di Substack, Chris Best, descrive il suo lavoro come una forma di empowerment per dare agli autori “un proprio impero mediatico personale”.
Concorda Andrew Chen, che sostiene che le newsletter rappresentino un nuovo modo di fare micro-imprenditorialità. Gli abbonati a pagamento di Substack hanno superato i 50mila (erano 25mila a ottobre) e alcuni autori arrivano a guadagnare qualche migliaio di dollari all’anno. Niente male per un hobby.
Perché le newsletter sono contemporaneamente un business, un ritorno all’antico e una specie di fuga dal web, così come l’abbiamo costruito negli ultimi anni: dominato dai social netwoek e dalle ricerche su Google. Oggi in rete emerge solo quello che viene condiviso, che ha il grafo giusto ottimizzato per il Seo, ma anche i contenuti che hanno la forma giusta. Cioè che generano clamore, dibattito, litigio: è il vecchio meccanismo della rissa mediatica, che su Facebook e gli altri social funziona perfettamente, alimentando la macchina del fango e gli odiatori di professione.
Le newsletter? Sono una specie di giardino incantato: si costruisce un pubblico e si coltivano i lettori, uno per volta. Come scrive Carola Frediani, giornalista e manager in ambito security che gestisce la popolare newsletter Guerre di Rete“si può fare informazione anche senza stare in redazione, pubblicare carta, sbandierare esami e tesserini, inseguire inutili corsi di aggiornamento”, per fare “un prodotto personale (io lo faccio da sola), con zero spinte o pubblicità (…) realizzato nel tempo libero (…) e su temi comunque non proprio di massa”. La newsletter è personale, diretta, autonoma, creata tramite una delle varie piattaforme gratuite (o a pagamento) disponibili online.

Come sono cambiate le newsletter

Di newsletter ce ne sono e ce ne sono state milioni da sempre. Quel che cambia è soprattutto la cura. Spiega Adam Engst, che con la moglie gestisce TidBits, la più popolare newsletter settimanale in lingua inglese di notizie sul mondo Apple: “Stiamo celebrando il ventinovesimo anniversario: abbiamo pubblicato 1.462 numeri settimanali di TidBits. La newsletter è sopravvissuta a molte altre pubblicazioni focalizzate su Apple. Diversamente dalle pubblicazioni con le spalle larghe e un editore dietro le spalle, TidBits è veramente una operazione “mom-and-pop”, fatta in casa. La maggior parte dei nostri finanziamenti proviene dal programma di iscrizione a TidBits, che paga per gli autori, l’hosting e lo sviluppo. E francamente, ci permette di passare del tempo ad aiutare i lettori con articoli prodotti professionalmente”. Gli abbonati (paganti) di TidBits sono 2.800.
Rispetto a una newsletter istituzionale, che propone contenuti studiati da un ufficio stampa, o a una newsletter giornalistica costruita assemblando le notizie pubblicate il giorno prima (una sorta di raccolta dei contenuti di un sito di informazione) magari in maniera automatica, le newsletter indipendenti sono molto più libere e vanno più in profondità. Ritrovano la passione che era propria della prima ora dei blog, prima che il disimpegno a metà del primo decennio del nuovo millennio li trasformasse tutti in happy hour del proprio ombelico. Quando, cioè, c’era ancora qualcosa da dire.
Le newsletter sono diventate importanti, spiegano i guru, perché abbassano il rumore delle notifiche, entrano in maniera educata nelle nostre inbox, non urlano l’attualità ma casomai cercano di riannodare i link di qualcosa successo nei giorni precedenti, su temi che pochissimi giornali mainstream riprenderebbero. Sono temi “perduti” per la stampa mainstream perché interessano poche persone, si dice: ma sono un pubblico sufficientemente grande per una newsletter però, che vive sostanzialmente d’aria, almeno per ora.
Ancora, si tratta di newsletter di informazione o indipendenti, non di marketing fatto per email (che sono tra gli strumenti più efficaci con un ritorno del 3800% sulla spesa). Niente informazione “furba” come quelle, per esempio, del settore finanziario.

Dagli Stati Uniti all’Italia

Negli Stati Uniti ovviamente ce ne sono molte, e di vario genere: da quelle del Mit di Boston a quelle “di sintesi” sul mondo della tecnologia come Tldr, da quella impagabile di Aeon a quelle del New York Times o a Brainpickings di Maria Popova. O quelle di voci nuove e altrimenti inedite, come Craig Mod che ha costruito il suo impero mediatico bonsai (a cavallo tra New York e Tokyo) con due newsletter, Roden e Ridgeline (“a newsletter on walking”).
Anche in Italia che si trova un po’ di tutto. Sono andato a esplorare la mia inbox per vedere alcune di quelle che ricevo: da FantaNews a Valigia Blu, da Koselig di Mafe De Baggis a DuemilaParole sino a Fumo di Londra. Come spiega Alessandra Zengo, “si può raggiungere nuovi lettori grazie ai social network (…). Ma chi non ha una email, però? E quanto spesso viene usata? Ogni giorno, o quasi”.
Il modo migliore per provare a vedere come funziona una newsletter è provare a farne una. La prima cosa da capire, oltre al titolo, al tema e alla cadenza (settimanale), è la piattaforma. Esistono varie soluzioni: la più popolare è MailChimp, che però è a pagamento. Come Benchmark e Campaigner. Altre popolari piattaforme sono Mailup ed Emma, che si differenziano per velocità del servizio, costi, flessibilità e complessità dell’impostazione grafica delle newsletter.
Per giocare sul sicuro abbiamo ripescato Tinyletter, storica piattaforma per newsletter molto semplice da usare, con pochissime funzioni e personalizzazioni, gratuita per 5.000 contatti, che è stata acquistata da MailChimp e che doveva essere chiusa, ma che invece sta resistendo grazie alla passione dei suoi utenti. Perfetta per sperimentare.

La prova

Non essendoci bisogno di grafica, a parte qualche fotografia (scattata dall’autore), è la soluzione ideale per iniziare senza troppa fatica. Un paio di mesi fa, iniziando a fare ricerche per questo articolo, abbiamo così creato una newsletter intitolata Mostly Weekly, per vedere quali limiti e quali opportunità offriva sia il meccanismo di creazione che la “fatica” della sua realizzazione.
Venti numeri dopo abbiamo capito che l’impegno, per quanto scalabile e adattabile anche alla vita di tutti i giorni, è comunque una specie di matrimonio: ogni giorno si pensa a cosa pubblicare e come farlo. La natura periodica della newsletter (e il fatto che nella versione base sia solo testuale) spinge a creare una sorta di raccolta delle cose più interessanti lette durante la settimana e commentate. Più che attualità, ci si occupa di fare riflessioni e analisi.
È un impegno sostenibile? Senza prevedere una fonte di reddito legata alla newsletter (pubblicità, sponsorizzazioni, referral, oppure azione di marketing di una più ampia campagna) è difficilmente sostenibile. Dopo venti numeri è chiaro che è un hobby abbastanza totalizzante che non lascia spazio per molto altro. Ma, se si ha la passione di fare informazione in rete – come ai tempi dei blog e dopo – è un palcoscenico completamente diverso da qualunque social ed è chiaramente la parte emergente di un movimento che cerca di uscire dalle prigioni dei vari Facebook, Twitter e Instagram per tornare a produrre contenuti genuini e alimentare un dibattito meno urlato e più costruttivo.
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